«Fino a settanta volte sette...» Commento al Vangelo del 17 settembre 2017, XXIV domenica T.O.

«Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello». Questa è la chiara e finale risposta di Gesù alla domanda di Pietro con cui inizia la pagina evangelica di questa domenica: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». La risposta di Gesù oggi è preceduta dalle tuonanti parole che il libro del Siracide ci propone nella prima lettura. Riascoltiamole: «Rancore e ira sono cose orribili, e il peccatore le porta dentro. (...) Perdona l’offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati. (...) Ricordati della fine e smetti di odiare, della dissoluzione e della morte e resta fedele ai comandamenti. Ricorda i precetti e non odiare il prossimo, l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui». 
Ammettiamolo: non è per nulla facile ascoltare parole del genere. Come non è per nulla scontato praticare quanto detto da Gesù di Nazareth a proposito di un perdono illimitato: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette». Sul perdono si concentra oggi la liturgia della Parola. È il perdono che misura l’intensità delle relazioni umane e divine. È il perdono l’unità di misura dei rapporti tra persone e tra credenti e Dio. È il perdono che stabilisce la giustizia di ogni evento che ha scardinato determinate relazioni. È il perdono quel patto di alleanza con cui Dio ha stabilito una relazione con l’uomo. È un perdono fatto di sangue quello vissuto da Dio quando ha accettato di immolare sulla croce il suo Figlio Gesù. Infatti, che parole ascoltiamo da Gesù nel momento della sua tremenda morte? «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). È quel perdono che ha stabilito una relazione, una “santa alleanza” tra Dio e l’uomo. 

Non c’è perdono senza lo spargimento del sangue. In altre parole, non c’è perdono senza impegno, senza sacrificio, senza morte. Ogni perdono richiede uno sforzo di grazia. Per questo nel Salmo responsoriale ripetiamo le seguenti parole: «Perché quanto il cielo è alto sulla terra, così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono; quanto dista l’oriente dall’occidente, così egli allontana da noi le nostre colpe» (Sal102). Ricordarci della misericordia di Dio verso di noi è l’antidoto per non vivere col rancore e con l’odio, con l’ira e con l’orgoglio attendendo invano che siano gli altri a fare il primo passo, ma per essere capaci di percorrere il cammino di conversione che ci orienta verso il prossimo per raggiungere Dio. La nostra preghiera potrà raggiungere il cuore misericordioso di Dio soltanto se useremo misericordia verso il fratello che ci ha fatto un torto. Per questo Gesù nel suo più bel discorso annuncia: «Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia» (Mt 5,7). E ancora dice: «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro» (Lc 6,36). La misericordia per un credente in Cristo è uno stile di vita, è uno stato permanente esistenziale, è una costante che vige in ogni suo pensiero e in ogni sua azione. Il modello ispiratore per esercitare lo stile della misericordia è Gesù. E senza troppi giri di parole è bene dire che in particolare è quel Gesù sulla croce, quel Gesù con le braccia allargate in segno di accoglienza e di perdono. 
Il cristiano che perdona è colui che ha continuamente le braccia spalancate, che ha il costante desiderio di abbracciare chiunque gli faccia del male, che vive in continua tensione verso il prossimo che lo ha ferito. Ma la misericordia non è un gesto ordinario, che si ripete mnemonicamente. È un cammino tanto umano quanto di fede, è un calvario. Quel cammino che conduce sul monte della crocifissione, cioè sul monte dell’amore, del perdono appunto. 
Don Onofrio Farinola

Commenti