156°anniversario della nascita della nostra Beata Madre Giuseppina Vannini.

Maternità della nostra Madre:


Madre di una famiglia in cammino sulle complicate e difficili vie del mondo della salute, la beata incarnava in sé le ansie, le gratificazioni, gli scontri e gli incontri delle figlie.
Sbocciata su l’ultimo versante della vita – dal 1892 al 1911 – la maternità di lei durò diciannove anni. No fu, peraltro, una meteora; ma uno status destinato a sopravviverle, dopo la morte increscendo, anzi, al ritmo dell’aumento numerico delle figlie. Sul letto di morte la maternità parve a lei non più un « dono » ma, inspiegabilmente, un « tradimento! » A danno delle figlie; per non aver dato loro quello che lei sola misurava come maternità.
Uno status, non un atteggiamento; una convinzione, dopo lo sbocciare miracoloso di quella maternità stessa nel momento in cui ella – spinta da altri all’interno di un tunnel apparentemente senza sbocco – sembrava aver abdicato a ogni fecondità.
Una maternità espressa non in segni eclatanti, ma in gesti e parole semplici, come usa in famiglia. Una suora ricorda: «durante una gita, al momento della refezione, non vi era minestra, soltanto un po’ di brodo per la Madre sofferente che ne aveva bisogno »; iniziava il desinare e la religiosa che  riferisce -  allora novizia – fu chiamata dalla fondatrice che le pregava d’accettare un po’ di brodo; « quell’atto mi commosse profondamente [scrive la novizia] e invano cercai di esimermi dall’accettare, che mi impose per obbedienza di farlo». Alla stessa suora, ritiratasi una sera a letto per sopravvenuta indisposizione, la Madre inviò l’infermiera « a portarle qualche sollievo perché non avesse a soffrire». Altri fatti, scrive la stessa religiosa, non mancarono dai quali « si può conoscere quanto la nostra Madre amasse ognuna delle sue figlie, con tale affetto come se a quella sola dovesse pensare ».
« Non negava nulla quando poteva far piacere alle figlie; spesso, anzi, ne preveniva i desideri in quello che poteva concedere», scrive il Sandigliano.
Innumeri episodi, disseminati nei due volumi del Processo Ordinario Informativo sono riferiti sulla maternità della fondatrice. Avrebbe voluto le figlie sempre attorno a sé e le visitava sovente nelle case dell’istituto anche se ciò dovesse costarle non piccolo dispendio di forze; « se trovava qualcuna sciupatina [ricorda una religiosa] le ordinava subito riposo, le faceva migliorare il vitto, imponeva qualche sollievo, come passeggiate frequenti e alle superiore raccomandava con premura che avessero occhi per vedere e che stessero attente a non lasciar deperire le suore ».

Un ‘altra scrive: « quando ci visitava era l’angelo consolatore, apportatore di pace, di gioia, di allegrezza e conforto, incoraggiando le figlie a percorrere la via del Signore. Quanto ci amava la nostra Madre! » . l’accoglienza riservata alle figlie apriva il loro cuore; non le mancava sul labbro il sorriso e a tempo opportuno sapeva anche scherzare. Sembrava « che neppure un pensiero passasse per la testa delle figlie senza che la Madre non lo conoscesse » di qui lo spirito d’unione, la fiducia, l’apertura, la cedevole obbedienza, la calda fraternità che, come sangue ricco d’humour, circolava tra le figlie; l’ottimismo ragionevole, è nello stesso tempo la forza più grande del mondo (Joly); una forza, appunto, nella piccola famiglia di madre Giuseppina.
Il faticoso, a volte estenuante, lavoro dell’assistenza alle inferme esponeva quelle coraggiose a un’usura accelerata delle forze e all'aggressività degli agenti patogeni. I primi tempi non poche soccombettero in età giovanile;  « ognuna di noi [scrive una suora] sa quello che ha fatto la Madre per confortare i nostri cuori, quello che ha fatto per le sue ammalate ». Aveva attrezzato un locale « a infermeria per le inferme della comunità […] rendeva frequenti visite alle suore inferme, le provvedeva di vitto speciale, di confetture ». Alle più gravi rendeva visita quotidiana e passava, a volte, la notte al loro capezzale vegliandole, nonostante la propria salute cagionevole. 
Per l’ammalate attrezzò una casa in località Villa Loreto (Cremona, 1907). 

Esempio della tenerezza della Madre è nella visita resa a suor Agnese Staderini in Cremona. Inteso l’aggravarsi dell’ammalata, senza « metter ostacoli in mezzo » partì da Roma « coll’angoscia nel cuore per tema di non arrivare in temo, volendo trovarsi presente allo spegnersi del primo fiore della piccola comunità – prima defunta tra le Figlie di San Camillo! – . Suor Agnese si era impegnata fino all'ultimo nell'assistenza ai malati; con febbre elevatissima vegliava di notte le ammalate pur convinta d’essere affetta da una malattia incurabile, la tubercolosi. Progredendo l’affezione e avvicinandosi la fine, la giovane suore chiedeva al medico quanto poteva avere ancora di vita pregandolo di « non aver riguardi ché essa era ben contenta ». Il 19 agosto 1897 « l’anima bella se ne volò in cielo ». « La nostra buona Madre [così la Cronaca della casa] giunse dopo un viaggio angoscioso e faticoso da Roma alla sera arrivando il giorno seguente alle sei del dopopranzo, soffrendo tutto il calore e l’afa di una intera giornata nella trepidazione. Giunta in casa, chiese subito della cara malata, si confortò avendola intesa ancora viva, pensando che il suo viaggio non era stato inutile ». L’ammalata, che ansiosamente l’aspettava, inteso l’arrivo della Madre « si mise affannosamente a chiamarla, sicché la Madre corse per far contenta la sua amata figlia ad abbracciarla affettuosamente e a incoraggiarla. Le disse: « Madre è venuta per vedermi morire, non è vero? e non partirà prima? ». Ogni giorno andava aggravandosi; dopo una notte di grande smania, verso le quattro del mattino disse all'infermiera di chiamare alla Madre, che stava dormendo; la Madre giunse nel momento che l’ammalata rendeva l’anima a Dio. Di quella perdita la fondatrice fu addoloratissima; e questo [ osserva la scrittrice della Cronaca] non fu l’ultima dolore per la venerata Madre »

Riserva nel cuore delle figlie la « maternità » compressa in lei che, da bambina, non aveva potuto goderne. 
Maternità del cuore, filtrata, peraltro, da una mens attenta e gelosa, che le chiedeva anche i « sacrifici del cuore », i più profondi all'uomo e graditi a Dio – come scriveva lei stessa a suor Gerarda Legrand il 17 aprile 1906 – . Aveva lasciata la giovane suora francese a Genova, in partenza per Buenos Aires con la prima spedizione delle Figlie di San Camillo per l’America, e, scrivendo da Cremona, accusava appunto « i sacrifici del cuore », patiti e soffocati al momento del distacco da quelle figlie, salpate per lidi lontani. Un distacco trasformato in trauma psicoaffettivo; « si figurino [scriva in quella lettera] se non le seguimmo sempre nel tragitto; spesso spesso si rammentano tanto qui da noi che dalle pensionanti e tutte le nostre conoscenze pregano giornalmente acciò il viaggio sia felice; io, a confessarle il vero, sono rimasta mezzo stupidita e non mi riesce più di stare allegra. Tutte non fanno che riapertimi che sono seria e non sono più quella di prima, e temono d’esserne loro la causa. Lo sento e lo conosco anch'io, ma non sono capace di sormontarmi da un non so che di triste che mi circonda ». Una depressione per l’incognita del viaggio verso l’America? Il circolo di un umore triste? Uno svuotamento d’energia? Una venuta meno improvvisa d’interessi residui? Una carenza d’impulsività? « Nostra Madre [ scrive suor Camilla Sommacampagna] soffrì un continuo martirio, senza pensare alle pene morali che se le procurava pel suo carattere sensibile e materno fino all'eccesso ».

Una maternità forte e accattivante, determinata anche se graduata nell'espressione, ma ferma sui valori fondamentali della vita consacrata. Scriveva a suor Giovanna Pedon  - visitatrice delle case dell’Argentina – il 21 marzo 1910: « la penso anch'io come lei circa la perfezione e il modo d’agire e di contenersi nelle circostanze; ma non tutte siamo eguali, e quindi dobbiamo inculcare più che possiamo e poi sopportare certi esseri come sono, se non è possibile cambiarle del tutto. Ho piacere che tutto si sia accomodato con suor N.N. ma ho anche caro che abbia parlato chiaro e schietto; che fa sempre bene, specialmente a certe piene d’amor proprio e suscettibilità per loro stesse, ma che poi non ne risparmiano alle altre. Vorrei che la medesima si abituasse meno dura e più mamma colle sue dipendenti, colle quali trattò sempre duramente e niente educato. Sapere le suore sotto certi caratteri che non sanno possedere e padroneggiare mi fece pena. Ci vuole fermezza, severità, ma buon cuore per tutte […]. Non lasci di battere all'occasione per tutto ciò che deve essere necessario per il bene delle case e dei soggetti; lavoriamo per la gloria di Dio e basta ».
“ È solo un flash, non altro, sulla dolce e forte « maternità » di Madre Giuseppina; figlia dell’amore per riprodurre da madre l’amore nel cuore delle figlie”.

Bruno Brazzarola M.I. (postulatore) madre Giuseppina Vannini Fondatrice delle Figlie di San Camillo (1859 – 1911) piccola cronaca nella grande storia della chiesa romana. Cap. XVII Maternità 

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